sabato 24 marzo 2012

Questioni irrisolte per la Cina che verrà

Gli equilibri geopolitici si spostano a Oriente, lontano dall'Atlantico, a migliaia di chilometri da un' Europa stanca e sfibrata dal debito, priva di una leadership, di una prospettiva coerente per il futuro, sorda agli ideali che l'avevano creata. E' il momento del Pacifico e dell'Estremo Oriente: il ritorno dell'Impero di Mezzo.
Quantomeno questo è lo scenario che si configura se a Bruxelles non avviene un cambio forte. Ma questo meriterebbe un altro post.

C'è che invece pochi giorni fa è passato in sordina un anniversario importante: in questo mese cadono i 53 anni dalla rivolta di Lhasa del 10 Marzo 1959, l'insurrezione del popolo tibetano contro l'occupazione cinese (iniziata nel 1951). Una rivolta nel nome dell'indipendenza della propria terra e in difesa del Dalai Lama, autorità politica e spirituale del Tibet, cui fa seguito la dura risposta repressiva del Governo di Pechino, che con le sue truppe prende il pieno controllo della città. Migliaia di Tibetani vengono uccisi e imprigionati, molti tentano la fuga all'estero, in India. Tra questi lo stesso Dalai Lama, costretto all'esilio. 

In occasione dell'annuale ricorrenza a New York è stata organizzata una marcia di protesta: partiti dal quartier generale delle Nazioni Unite i manifestanti si sono diretti verso il consolato cinese, attraversando diversi punti nevralgici di Manhattan. Ho avuto la fortuna di essere da quelle parti con un amico e ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda a Jigme Ugen, tra gli organizzatori della protesta, e per raccogliere sensazioni e commenti a caldo da parte dei cittadini che assistevano.

Dopo mezzo secolo il quadro non è molto  cambiato, ci rivela Jigme. Il Tibet resta sotto il controllo cinese e per stabilizzare gradualmente la situazione, molti cittadini di etnia Han (la più numerosa in Cina) sono stati incentivati negli anni da programmi governativi a stabilirsi in Tibet. I grandi flussi migratori che si sono verificati hanno ridisegnato la composizione etnica del territorio, rendendo, secondo alcune statistiche, i Tibetani una minoranza nel loro stesso territorio. 
Recentemente però la situazione si è surriscaldata. Diversi monaci tibetani hanno deciso di darsi fuoco in segno di protesta. Ne parla quest'articolo del Guardian, qui UsaToday. Qui, su Taipei News, trovo la conferma di quanto raccontatomi da Jigme, riguardo il pestaggio di un monaco, che aveva fallito nel suo tentativo di suicidio. Questo post di Radio Free Asia è di 3 giorni fa: sembra che un altro giovane monaco abbia deciso di darsi fuoco, Lobsang Tsultrim.
Nonostante l'esacerbarsi degli eventi, resta tuttavia molto improbabile l'ipotesi che Pechino acconsenta al diritto di autodeterminazione del popolo tibetano. Le ragioni sono molteplici, spaziano dall'ambito storico-tradizionale (secondo il Governo il Tibet è storicamente una regione cinese) alla più pragmatica e concreta realpolitik. Nella zona scorrono alcuni tra i principali fiumi dell'Oriente (come lo Huang He, il fiume Giallo, e lo Yangtze): controllarli implica garantirsi un più stabile approvvigionamento idrico per la popolazione. Senza contare le risorse naturali di cui la zona è ricca.
The Atlantic spiega in modo molto efficace il punto di vista del popolo cinese sulla questione tibetana.

Ad ogni modo il dialogo su una maggiore autonomia regionale resta possibile. E qualcosa sta cambiando. Dopo più di un mese di sciopero della fame di tre attivisti tibetani davanti al Palazzo di Vetro, è finalmente arrivata una risposta dal Segretariato. Stando a quanto scritto da Sangye, sono stati nominati dalla Commissione sui Diritti Umani due osservatori, che dovranno monitorare e raccogliere dati per conto delle Nazioni Unite. E' un primo passo.

Chen Pokong (in questo video è a una conferenza sulla Great Firewall, la Grande Muraglia di fuoco che irrigimenta il traffico in rete in Cina), cinese di origine e residente a New York che abbiamo incontrato lungo la strada, ci spiega come l'attuale situazione sia profondamente ingiusta e che il diffuso sentimento di indifferenza della gente comune è da spiegarsi anche con la continua censura da parte degli organi della stampa, sotto controllo governativo. "Government and newspapers are hiding the truth", "Democracy for a free Tibet" sono solo alcune tra le sue dichiarazioni.   

La manifestazione si è conclusa a Union Square nella serata, con un discorso di Jigme. Il gruppo Students for a free Tibet ha caricato su Youtube la registrazione.

Posto i principali siti di riferimento per chi volesse approfondire la questione. March10.org è il principale, Tibetan Youth CongressUS tibet committee.

Ad oggi il Tibet resta una delle più grandi questioni irrisolte, per una Cina che aspira al ruolo di paese leader della comunità internazionale. La crescita del Pil da sola non genera un grande paese. E' il momento che a Pechino ne diventino consapevoli.

"Tibet, my land, my freedom, my demand,
China's time is up" (slogan della manifestazione)

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